Sentenze in Sintesi
Legittimo il licenziamento irrogato alla dipendente che ha pubblicato sui social contenuti diffamatori nei confronti del superiore gerarchico
Con l’Ordinanza n. 2058/2025 del 29.1.2025 in esame la Suprema Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui è legittimo il licenziamento irrogato alla dipendente che nell’esercizio del diritto di critica, ha pubblicato sui social contenuti diffamatori nei confronti del proprio superiore gerarchico.
Nella specie, il provvedimento espulsivo è stato adottato a seguito di una contestazione disciplinare avente ad oggetto il comportamento della dipendente giudicato dal datore incompatibile con la prosecuzione del rapporto di lavoro perché lesivo del vincolo fiduciario, per aver inviato numerose e-mail aziendali e pubblicato post su Facebook contenenti dichiarazioni diffamatorie nei confronti dei suoi superiori.
Il licenziamento è stato impugnato dalla lavoratrice sul presupposto della sua illegittimità ed il Tribunale all’esito della fase sommaria ha rigettato la domanda.
In maniera conforme si è pronunciato anche il Tribunale all’esito della fase di cognizione piena, laddove nel ritenere ammesse dalla lavoratrice le conversazioni via mail, e provate la paternità dei post pubblicati su Facebook, ha attribuito efficacia probatoria ex art. 2712 c.c. alle immagini diffuse sui social network, valutando come elementi presuntivi di conferma sia le denunce/querele che le ricusazioni dei giudici del Tribunale di Siracusa e della Corte di Appello di Catania intervenuti successivamente al licenziamento.
Il caso all’esame della Suprema Corte riguarda l’impugnativa della sentenza della Corte di Appello di Catania che, nel condividere l’iter argomentativo del Tribunale sia nel giudizio sommario prima che in quello di cognizione piena poi, ha dichiarato legittimo il licenziamento comminato alla dipendente sul presupposto che il comportamento della lavoratrice avesse esorbitato dai limiti della continenza formale del diritto di critica.
Sia il Tribunale prima che la Corte di Appello dopo sono stati concordi nel ritenere che il diritto di critica debba sempre rispettare dei limiti senza sconfinare nella diffamazione.
Peraltro la Corte di Appello ha tenuto in debito conto anche la circostanza secondo cui la lavoratrice era stata condannata per diffamazione dal Tribunale penale di Siracusa.
La sentenza della Corte di Appello di Catania è stata impugnata davanti la Suprema Corte di Cassazione dalla lavoratrice con censura a 6 motivi di ricorso tra i quali: “Violazione e /o falsa applicazione degli artt.21 Cost 1 L.300/70 1175 e 1375 c.c. nonché 55 CCNL di settore” per avere la Corte territoriale escluso la sussistenza della scriminante del diritto di critica e per non aver colto la ritorsività delle condotte datoriale, nonché per aver posto sullo stesso piano le e-mail aziendali ed i post pubblicati su Facebook nonostante l’espresso disconoscimento di questi ultimi.
Il motivo è stato ritenuto infondato dalla Suprema Corte.
Al riguardo infatti la Cassazione, nel ritenere tempestiva la sanzione irrogata sul presupposto della congruità del lasso di tempo intercorso tra i fatti ed l’irrogazione del provvedimento espulsivo, ha osservato che entrambe le affermazioni sia sulla genericità del disconoscimento che sulla valenza probatoria dei post di Facebook non sono state censurate – come evidenziato anche dai giudici del reclamo – pertanto ha decretato la conformità a diritto della statuizione impugnata.
La Corte, inoltre, ha confermato anche la valenza probatoria della sentenza di condanna del Tribunale Penale di Siracusa che aveva già accertato la responsabilità della lavoratrice per il reato di diffamazione aggravata in danno di uno dei colleghi di lavoro ritenendo così pienamente dimostrata la paternità dei posts pubblicati ed oggetto di contestazione disciplinare
Si legge nella sentenza sul punto : “ …ne consegue che è conforme a diritto il convincimento della Corte territoriale, relativo sia alle e-mail sia ai posts pubblicati su Facebook: i giudici del reclamo hanno ritenuto che quelle manifestazioni di pensiero superassero il limite della continenza formale, con conseguente inapplicabilità della scriminante del diritto di critica. Ed il fatto inoltre che quei post non riguardassero la società è circostanza del tutto irrilevante, poiché riguardavano comunque i superiori gerarchici della dipendente, autrice di quei post e quindi senza dubbio hanno rilievo disciplinare qualora – come nel caso di specie- superino il limite della continenza formale”.
All’esito della ordinanza in esame, si può affermare che, conformemente a quanto già ritenuto in precedenza dalla Suprema Corte, il diritto di critica del lavoratore è legittimo solo quando rispetta precisi limiti di continenza pertanto, le critiche nei confronti del datore di lavoro devono essere formulate con un linguaggio corretto e rispettoso, diversamente, qualora la critica venga formulata con dichiarazioni che possono essere considerate diffamatorie, la sanzione espulsiva del licenziamento del lavoratore è legittima
Infine, con riferimento al motivo di ricorso relativo alla esclusione della natura discriminatoria ritorsiva del licenziamento, la Corte di legittimità ha ritenuto tale motivo infondato sia sul presupposto che la ricorrente ha adoperato promiscuamente le aggettivazioni “discriminatorio” e “ritorsivo” , laddove invece trattasi di due qualificazioni giuridiche del tutto distinte ed autonome, sia sul presupposto che l’asserita ritorsività del licenziamento resta comunque esclusa dall’accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito, sull’avvenuto travalicamento dei limiti del diritto di critica.
Il giudizio si è concluso con il rigetto del ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite.