risarcibilità e prova del danno morale
Sentenze

3 Marzo 2025 – Discriminazione: risarcibilità e prova del danno morale.

Sentenze in Sintesi
Corte di Cassazione, Ordinanza n. 3488/2025, dell’11 febbraio 2025 su discriminazione: risarcibilità e prova del danno morale.

Fonti multilivello, precedenti non del tutto univoci, principi interpretativi e implicazioni sociali della materia in continua evoluzione hanno portato al giudizio della Corte di Cassazione un caso non eclatante ma complesso, non a caso deciso in modo differente dai tre giudici – tra merito e legittimità – che se ne sono occupati.

Un lavoratore che aveva lavorato in forza di reiterati contratti a tempo determinato alle dipendenze di una fondazione, aveva partecipato con esito positivo ad una selezione per il reclutamento nel medesimo ente, ma non era stato assunto per il rifiuto di firmare, come sembra altri nelle medesime condizioni avessero fatto, una transazione con rinunce a promuovere giudizi per i rapporti precedenti. Tra le altre circostanze, il lavoratore aveva lamentato di essere rimasto vittima di una discriminazione, chiedendo di conseguenza il ristoro di danni patrimoniali e non patrimoniali, qualificati quest’ultimi come “morali”.

Il Tribunale aveva rigettato le domande, ritenendo insussistente la discriminazione.

La Corte d’Appello, correggendo parzialmente la prima sentenza, aveva ritenuto invece sussistente la discriminazione, ma aveva condannato la fondazione al risarcimento dei soli danni patrimoniali, conseguenti all’ordine della presa in servizio, con decorrenza dalla maturazione del diritto. Aveva per contro rigettato la domanda risarcitoria riguardante i danni morali, per mancanza di prova della loro sussistenza.

A chiudere il cerchio ci ha pensato quindi la Corte di legittimità, che ha ritenuto non corretta l’esclusione del risarcimento per danni morali e ha rimesso il giudizio ai giudici di merito per applicare il principio espresso nella decisione.

I temi salienti della decisione sono stati quindi sostanzialmente tre.

Il primo riguardante la sussistenza di un caso di discriminazione. Il secondo e il terzo invece sono relativi alla risarcibilità dei danni morali ed alla prova necessaria per ottenerne il ristoro.

Il tema della discriminazione è stato purtroppo affrontato dalla Suprema Corte in modo molto sintetico, poiché il ricorso proveniva dal Lavoratore, il quale nelle more era stato assunto dalla fondazione, dopo che questa aveva cambiato i vertici di amministrazione. Essendo stato il Lavoratore vincitore in appello sul punto, la Corte di Cassazione, investita nella sostanza solamente della richiesta di modifica della motivazione, ha dovuto dichiarare inammissibile il motivo di ricorso. Fermo restando che la sinteticità dei rilievi non consente una piena conoscenza degli argomenti spesi nel grado precedente, emerge comunque da quanto riportato dalla decisione della Corte territoriale una definizione che fa riflettere «le condotte ritorsive integrano una forma di discriminazione allorquando costituiscono la reazione del datore di lavoro alle convinzioni personali manifestate dal prestatore, da intendere in senso ampio sì da ricomprendervi anche la libera volontà di autodeterminazione negoziale».

Nulla quaestio sulla ritorsività (ad un comportamento legittimo) come possibile fonte di discriminazione, ma qui sembra che la Corte di Appello abbia anche ricompreso la singolare figura della volontà di autodeterminazione negoziale nell’ambito delle “convinzioni personali” da rispettare secondo i dettami del d. lgs. 216/2003 e della direttiva che l’ha ispirato. Comunemente si afferma che le “convinzioni personali” esprimano valori ideali delle persone, non ricompresi tra quelli specificamente previsti nel decreto legislativo; per es. l’essere obiettore di coscienza, vegetariano, amante di un genere musicale o tifoso di una squadra di calcio. Ma la “volontà di autodeterminazione negoziale” riferita ad una singola e concreta negoziazione può rientrare nelle “convinzioni personali” tutelate? Il datore di lavoro che rifiutasse di assumere un lavoratore che non vuole firmare il contratto di lavoro tipo che firmano tutti i lavoratori solo perché non consono alla sua “volontà di autodeterminazione negoziale”, opererebbe una discriminazione? L’autonomia negoziale non si concretizza in un libero accordo tra due (o più) parti? Se una delle parti ha il diritto di far valere la propria volontà nonostante quella dell’altra parte, allora non siamo nel campo dell’autonomia negoziale ma evidentemente a monte c’è una diversa fonte di obbligo. La corretta sinteticità della decisione sul punto, come si è detto, non consente di approfondire il tema.

Sulle conseguenze risarcitorie della discriminazione la Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, si mantiene nel solco della propria giurisprudenza. Ma anche su tali temi alcune questioni sembrano ancora irrisolte.

Il danno morale è incluso ormai nel più ampio genus dei danni non patrimoniali, risarcibili quando si rileva una lesione di diritti costituzionalmente garantiti, secondo gli arresti della nota pronuncia a SS.UU.  del 2008. Sulla misura del risarcimento la Corte fa appello al diritto europeo, e premettendo che «non può essere ricondotta nell’alveo dei cosiddetti danni punitivi in senso proprio» essa deve essere condotta alla stregua «della clausola 17 della direttiva 2000/78/CE secondo cui … le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive». Rimane sempre la domanda se la «la connotazione dissuasiva» costituisce un limite interno (e quindi il risarcimento non può essere ridotto fino a rendersi “non dissuasivo”) od esterno, tanto da potersi collocare al di là del danno effettivamente subito, se questo – pur nella sua interezza – non appare dissuasivo. In questo secondo caso, potrebbe non essere netto il confine con i “danni punitivi”.

Quanto infine alla prova, la Cassazione ritiene che il danno possa essere provato ricorrendo ad un ragionamento presuntivo, e poi liquidato con criterio equitativo. Anche in questo caso, la premessa rassicurante che tale valutazione del danno «non è in re ipsa» sfocia nell’affermazione che il danno può essere «provato ricorrendo al ragionamento presuntivo, valorizzando la maggiore o minore gravità dell’atto discriminatorio e le ragioni che l’hanno determinato», con valutazione pertanto che sembra svincolata dalle “conseguenze” della condotta.